REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: LOCATORE – ricorrente -contro CONDUTTORE – intimato – avverso la sentenza n. 10229/2017 del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 13/10/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 20/07/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Giudice di Pace di Milano, con sentenza del 16 ottobre 2014, accoglieva domanda di risarcimento dei danni subiti da un immobile proposta da LOCATORE, nei confronti del conduttore, che condannava quindi a pagare Euro 1320 oltre rivalutazione. Il CONDUTTORE proponeva appello, cui controparte resisteva, e che il Tribunale di Milano accoglieva con sentenza del 13 ottobre 2017, rigettando la domanda risarcitoria e condannando l’appellata a rifondere all’appellante le spese di entrambi i gradi di giudizio di merito. LOCATORE ha proposto ricorso, articolato in tre motivi, da cui l’intimato non si è difeso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1 Il primo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 2, denuncia violazione ed errata applicazione degli artt. 7 e 9 c.p.c.
La ricorrente censura il Tribunale per aver accolto l’eccezione di incompetenza funzionale del Giudice di Pace trattandosi di causa locatizia – e poi decidendo nel merito, non essendo fattispecie riconducibile agli artt. 353 e 354 c.p.c. -, non tenendo in conto Cass. 21528/2011, bensì citandola solo per definirla “isolata ordinanza”. La ricorrente aveva agito per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali che avrebbe arrecato il conduttore all’immobile di cui ella era locatrice oltre che proprietaria: sostiene quindi la competenza del Giudice di Pace per valore ai sensi dell’art. 7 c.p.c., non essendo “in contestazione il rapporto di fatto sull’immobile (ovvero la locazione)”.
1.2 Il motivo è manifestamente infondato in considerazione della giurisprudenza nomofilattica che si è sviluppata nel senso della soluzione adottata dal giudice d’appello nel caso in esame.
La questione è stata, da ultimo, affrontata ex professo ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, da Cass. sez. 3, 31 ottobre 2019 n. 28041, massimata come segue: “In tema di controversie aventi ad oggetto il pagamento di canoni di locazione, ancorché di importo non eccedente il limite di cinquemila Euro di cui all’art. 7 c.p.c., comma 1, resta esclusa la competenza del giudice di pace, atteso che la pretesa creditoria ha la propria fonte in un rapporto locativo, materia da ritenersi riservata alla competenza del tribunale”. In motivazione, tale arresto si avvia proprio dalla necessità di una corretta lettura del principio di diritto affermato da S.U. ord. 19 ottobre 2011 n. 21582: “E’ competente il giudice di pace(nei limiti della sua competenza per valore) in ordine alle controversie aventi ad oggetto pretese che abbiano la loro fonte in un rapporto, giuridico o di fatto, riguardante un bene immobile, salvo che la questione proprietaria non sia stata oggetto di una esplicita richiesta di accertamento incidentale di una delle parti e sempre che tale richiesta non appaia, “ictu oculi”, alla luce delle evidenze probatorie, infondata e strumentale – siccome formulata in violazione dei principi di lealtà processuale – allo spostamento di competenza dal giudice di prossimità al giudice togato.”
Precisa infatti la pronuncia del 2019 che il principio nomofilattico suddetto “si limita a fornire una interpretazione (estensiva) dell’art. 7 c.p.c., comma 1, nella parte in cui, nel fissare il limite della competenza del giudice di pace, fa espresso riferimento alle “cause relative a beni mobili” (riferimento interpretato dal Supremo Collegio nel senso che la competenza resta attribuita al giudice di pace anche qualora la controversia riguardi pretese creditorie (aventi ad oggetto una somma di danaro, bene mobile, non eccedente i limiti di valore di Euro 5.000) che abbiano la loro fonte in un rapporto, giuridico o di fatto, riguardante un bene immobile, salvo che la questione proprietaria non sia stata oggetto di una esplicita richiesta di accertamento incidentale di una delle parti e sempre che tale richiesta non appaia, ictu oculi, alla luce delle evidenze probatorie, infondata e strumentale), ma fa espressamente salva l’ipotesi che le ragioni della domanda involgano materie attribuite alla competenza di altro giudice. Tanto si ricava expressis verbis dalla motivazione della sentenza, ove si osserva in premessa (p. 4.2) che l’attribuzione della competenza generale per valore del giudice di pace è sottoposta dalla norma ad un “triplice limite”: a) quello del valore in senso stretto desunto dal petitum; b) quello del carattere mobiliare dell’azione desunto sia dalla causa petendi che dal petitum; c) quello della mancanza di competenza per materia d’altro giudice. L’impegno argomentativo della Corte è concentrato esclusivamente sul secondo limite (carattere mobiliare dell’azione) – giungendosi al riguardo alla soluzione sopra ricordata (secondo cui quel che rileva è il petitum mediato, e dunque, ad es., la somma di danaro quale bene mobile, non il fatto costitutivo da cui la relativa pretesa sorga (che potrebbe dunque ben discendere anche dalla lesione di un diritto, reale o personale, sul bene immobile)) – e non riguarda affatto gli altri due, in particolare il terzo limite, rappresentato dalla positiva attribuzione dell’azione alla competenza per materia di altro giudice (in tal senso v. anche, espressamente, la p. 6 della sentenza). In ragione di tale limite resta quindi fermo, anche nel ragionamento delle Sezioni Unite, e deve qui riaffermarsi, che, ove la pretesa creditoria abbia la propria fonte in un rapporto locativo, trattandosi di materia da ritenersi riservata alla competenza del tribunale, resta comunque esclusa la competenza del giudice di pace, ancorchè la pretesa riguardi un credito pecuniario di importo non eccedente i cinquemila Euro”.
A sostegno di questa lettura, la sentenza del 2019 si avvale pure di Cass. sez. 3, 20 luglio 2010, n. 17039 (richiamata infatti adesivamente dall’ordinanza delle Sezioni Unite), laddove in motivazione osserva che “allorquando si eserciti una pretesa di risarcimento danni per equivalente assumendo che il danno si è verificato ad un immobile (quale che ne sia il titolo di godimento), il diritto fatto valere, avendo ad oggetto una somma di danaro e, quindi, un petitum mediato inerente il conseguimento di un bene della vita rappresentato da un bene mobile, è per definizione un diritto concernente una cosa mobile, qual è il danaro e, pertanto, agli effetti dell’art. 7 c.p.c., comma 1, la relativa domanda è senz’altro riconducibile all’ambito della competenza generale mobiliare colà prevista a favore del giudice di pace… Il criterio di competenza previsto da detta norma resta del tutto indifferente (salvo che l’ordinamento preveda un’incidenza sulla competenza riferita al rapporto da cui origina la pretesa risarcitoria e che concerne il godimento dell’immobile) alla circostanza che la somma chiesta a titolo risarcitorio costituisca l’equivalente di un danno-evento rappresentato dalla lesione verificatasi sulla situazione giuridica che l’attore vanta riguardo ad un bene immobile. Soltanto se il rapporto inerente il godimento dell’immobile è assunto come criterio per individuare una specifica competenza ratione materiae, la pretesa risarcitoria per equivalente diretta a ristorare la situazione giuridica inerente il godimento dell’immobile può sottrarsi alla regola di cui all’art. 7 c.p.c., comma 1, come accade ad esempio allorquando venga in rilievo una pretesa risarcitoria concernente un rapporto di locazione o di comodato immobiliare, oppure un affitto d’azienda… e naturalmente la pretesa riguardi le parti di tale rapporto”. Così poi prosegue l’arresto del 2019: “Quanto poi alla sussistenza di una competenza per materia del tribunale per tutte le controversie nascenti da rapporto locativo, ancorché aventi ad oggetto il pagamento dei canoni o altre obbligazioni pecuniarie per importo non eccedente i limiti di valore della competenza del giudice di pace, è sufficiente rammentare che trattasi di approdo interpretativo consolidato nella giurisprudenza di questa Corte,… sulla base di una ricostruzione delle conseguenze della soppressione dell’ufficio del pretore, con la conseguente abrogazione dell’art. 8 c.p.c….”, come, per esempio, fu riconosciuto da Cass. sez. 3, 31 gennaio 2006 n. 2143.
1.3 Su quest’ultimo aspetto si è spesa in particolare, sempre di recente, Cass. sez. 6-3, ord. 30 luglio 2019 n. 20554, la quale appunto afferma: “Tutte le controversie in materia di locazioni immobiliari esulano dalla competenza del giudice di pace, perché, a seguito della soppressione dell’ufficio del pretore, con la conseguente abrogazione dell’art. 8 c.p.c., ad opera del D.lgs. n. 51 del 1998, art. 49, la competenza in materia di locazione di immobili urbani è stata attribuita al tribunale”.
Detta ordinanza, frutto di un regolamento di competenza non relativo a domande risarcitorie bensì al pagamento del canone locatizio, non si occupa direttamente, invero, del corretto significato di S.U. 21582/2011, ma comunque nella sua motivazione rimarca che il riconoscimento di competenza in materia locatizia anche al Giudice di Pace “spezza l’originaria unitarietà della competenza del Pretore”, laddove al contrario l’intenzione del legislatore delegante (si ricorda che l’art. 8 c.p.c. – il quale, al comma 2, prevedeva la competenza per materia del Pretore, tra le altre, per le controversie in materia di locazione – è stato abrogato dal D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, art. 49, D.lgs. fondato sulla delega rilasciata al Governo dalla L. 16 luglio 1997, n. 254, art. 1) poteva definirsi tesa a trasferire al nuovo giudice unico tutte le competenze del Pretore, tanto che l’art. 244, comma 2, posto nel Titolo VII del citato D.lgs.. Norme di coordinamento e finali, prevede proprio che “le funzioni del Pretore sono attribuite al Tribunale in composizione monocratica”. Diversamente opinando – rileva condivisibilmente questo ulteriore arresto l’interpretazione sarebbe “foriera di inconvenienti processuali”: il che può ben tradursi in complicanze che ricadrebbero, in maniera ostativa, sulle modalità di gestione del processo conformi alla semplicità, ontologica quanto logica, che costituisce in realtà la sostanza del principio – ben noto, ma ancora non sempre valorizzato – della ragionevole durata del processo. Il primo motivo del ricorso, in conclusione, risulta infondato.
2.1 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione ed errata applicazione del D.lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 2. Il Tribunale enuncia che tale norma stabilisce che il giudice d’appello “può” – e quindi non deve – invitare le parti alla mediazione, e reputa che disporla nel caso in esame sarebbe stato contrario al principio della ragionevole durata del processo, essendo già stato espletato il primo grado del giudizio.
Ma la norma obietta la ricorrente – presenta come incipit: “Fermo restando quanto previsto dal comma 1 bis…”: ne conseguirebbe che l’invio alla mediazione non sarebbe discrezionale neppure in appello, qualora si tratti di controversie annoverate appunto nel comma 1 bis dell’articolo, per cui la mediazione è obbligatoria; e tra queste rientrano le controversie locatizie. Pertanto il Tribunale avrebbe dovuto rilevare d’ufficio “ e conseguentemente dichiarare improcedibile la domanda, assegnando alle parti il termine di legge per proporre domanda di mediazione.
2.2 Premesso che fu la stessa attuale ricorrente ad avviare la causa senza procedere previamente alla mediazione, si rileva peraltro che questa Suprema Corte, in un assai recente arresto – Cass. sez. 3, ord. 13 dicembre 2019 n. 32797, non massimata -, ha vagliato un caso del tutto affine. Rilevato che il D.lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1 bis, prevede per determinate materie l’esperimento del procedimento di mediazione quale “condizione di procedibilità della domanda giudiziale”, stabilendo però che tale improcedibilità “deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza”, tale ordinanza ne ha dedotto che “l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio del giudice, non oltre la prima udienza nel giudizio di primo grado”, richiamando pure alcuni precedenti conformi in tal senso (Cass. sez. 3, 13 novembre 2018 n. 29017 – riguardante peraltro il rito sommario -, e Cass. sez. 3, 2 febbraio 2017 n. 2703, non massimata).
2.3 Peraltro, come pure è già stato segnalato da questa Suprema Corte (oltre all’appena citata Cass. sez. 3, 13 dicembre 2019 n. 32797, si veda Cass. sez. 3, 30 ottobre 2018 n. 27433, pure non massimata), permane al giudicante uno spazio di discrezionalità per inserire – e anche in appello -, sottraendola al potere dispositivo delle parti che ne esce pertanto limitato, la fase di mediazione quale soglia di procedibilità qualora reputi che le caratteristiche della controversia ne arrechino l’opportunità: ciò è infatti previsto dal D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 2, per cui, nei limiti dettati dai commi 1 bis, 3 e 4, prima della udienza di precisazione delle conclusioni o, nel caso in cui questa non sia prevista, prima della discussione della causa, “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”.
2.4 Una siffatta elasticità normativa conferita alla condizione di procedibilità in esame trae origine, a ben guardare, proprio dalla ratio dell’istituto della mediazione quale condizione di procedibilità, ratio che deve essere identificata nella celerità del processo dal punto di vista – che ne è l’altra facies – della deflazione del processo stesso qualora si appalesi come strumento superfluo. Ratio che è stata così riconosciuta inequivocamente dalla giurisprudenza di legittimità: in particolare, Cass. sez. 3, 3 dicembre 2015 n. 24629 ha espressamente affermato che il D.lgs. n. 28 del 2010, art. 5, rappresenta una norma che “è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale.
In questa prospettiva la norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira… a rendere il processo la extrema ratio”, ragion per cui, d’altronde, “l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo”. Rilievo, quest’ultimo, che evidenzia come, pur dinanzi alla nettezza del testo normativo in ordine al limite temporale previsto per eccepire il difetto di mediazione, l’attuale ricorrente ha posto una questione manifestamente infondata, nonostante l’essere stata proprio lei gravata dall’onere di avviare la mediazione, quale parte interessata al giudizio nella sua prospettazione (per cui avrebbe subito danneggiamenti all’immobile che aveva locato, così che sarebbero insorti diritti risarcitori): il che – non si può non rilevare, seppur per inciso – approssima assai l’utilizzazione del ricorso per cassazione, quanto al secondo motivo – appunto manifestamente infondato all’abuso del diritto processuale.
3.1 Il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta omessa valutazione di fatto decisivo risultante dagli atti processuali.
Il Tribunale avrebbe “omesso di valutare più fatti determinanti”, incorrendo così in un errore motivazionale. Dovrebbe infatti includersi in tale vizio l’omesso vaglio anche di elementi indiziari qualora, considerati, portino risultati diversi. Si sostiene ciò con il richiamo all’insegnamento di S.U. 7 aprile 2014 n. 8053 nel senso che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non può concernere solo il fatto principale, ma anche il fatto secondario, osservando la ricorrente che il fatto secondario, peraltro, “viene sempre in rilievo attraverso un’interferenza, un ragionamento presuntivo”. Segue la trascrizione della parte della motivazione attinente all’assenza di prova del nesso causale tra la condotta del conduttore e l’evento dannoso, per addurre poi che controparte, in ambo i gradi, avrebbe esplicitamente ammesso la “sussistenza del nesso di causalità tra la mancata sostituzione del flessibile… da parte del conduttore e le infiltrazioni… nell’immobile sottostante”; e infatti la difesa del conduttore avrebbe “sempre imputato la rottura del flessibile… ed il conseguente fenomeno infiltrativo a… caso fortuito o colpa della locatrice” (si indicano passi che sarebbero rinvenibili nella comparsa di risposta di primo grado e nell’atto d’appello): si tratterebbe dunque di un fatto decisivo. 3.2 Il motivo, a tacer d’altro, non corrisponde all’effettivo contenuto della sentenza impugnata. Invero il Tribunale osserva, in riferimento alla questione della sussistenza del nesso causale tra la mancata sostituzione di un flessibile in un sanitario e l’infiltrazione nell’immobile sottostante: “A ciò (alla questione appena evidenziata: n.d.r.) si aggiunga che l’esito dell’istruttoria orale ha addirittura smentito la circostanza, riferita dall’attrice, secondo cui l’idraulico di fiducia della proprietà avrebbe avvertito il conduttore della necessità di tale sostituzione”, emergendo invece dalla testimonianza dell’idraulico del LOCATORE che CONDUTTORE non fu informato della necessità di cambiare il flessibile. Dal passo della deposizione testimoniale riportato nella motivazione risulta infatti che l’idraulico aveva soltanto “consigliato” la sostituzione, e che, per di più, il flessibile “a vista non presentava segni di deterioramento”. Non si è pertanto dinanzi a un elemento decisivo ai fini della responsabilità del CONDUTTORE, se – come appunto ha ricostruito e per via motivazionale esternato il Tribunale – il conduttore, che non risulta fosse un tecnico del settore, non sapeva che era necessario cambiare il flessibile, e anzi l’idraulico si era limitato a consigliarlo in un contesto in cui, peraltro, il flessibile non appariva deteriorato neppure all’idraulico stesso. Il motivo risulta quindi infondato. 4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, non essendovi luogo a pronunciare sulle spese processuali dato che l’intimato non si è difeso. Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà invece atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara non luogo a provvedere sulle spese processuali. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto. Così deciso in Roma, il 20 luglio 2020. Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2020.