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23.06.2016 – Corte di Cassazione

Corte Costituzionale, sentenza 1 – 23 giugno 2016, n. 152
Presidente Grossi – Relatore Morelli
Ritenuto in fatto
1.− Nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’adito
Tribunale ordinario di Firenze – premesso che, in ragione della manifesta
infondatezza e dello scopo puramente dilatorio di quella opposizione,
ricorrevano i presupposti per la condanna dell’opponente al pagamento, oltre
che delle spese di lite, della ulteriore «somma equitativamente determinata» di
cui all’art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile – ha ritenuto, di
conseguenza, rilevante, ed ha per ciò sollevato, con l’ordinanza in epigrafe,
questione di legittimità costituzionale della predetta disposizione, «per
contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione nella parte in cui
dispone: “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il
giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al
pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente
determinata”, anziché a favore dell’Erario».
Secondo il rimettente, il censurato art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.
avrebbe, infatti, introdotto nel processo civile una fattispecie a carattere
sanzionatorio, che si discosterebbe dalla struttura tipica dell’illecito civile,
propria della responsabilità aggravata di cui ai primi due commi del medesimo
art. 96 e confluirebbe, invece, in quella, del tutto diversa, delle cosiddette
“condanne afflittive”, avendo come scopo quello di scoraggiare l’abuso del
processo, a tutela dell’interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione
civile e al giusto processo di cui all’art. 111 Cost. Per cui, ne inferisce lo stesso
Tribunale, sarebbe ragionevole – ed in tal senso auspica che questa Corte
emendi la disposizione impugnata – «che della condanna derivante dalla
lesione dell’interesse dello Stato al giusto processo, che danneggia tutti, si
avvantaggi lo stesso Stato e la comunità nazionale che Esso rappresenta e
garantisce con la giurisdizione», invece che la parte privata che ha già altri
strumenti a sua disposizione per reagire all’abuso della controparte che diriga
l’offesa anche nei suoi confronti.
2.– È intervenuto, in questo giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri,
per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, che, in via preliminare, ha
eccepito l’inammissibilità della questione, per carente specificazione dei profili
di contrasto della disposizione censurata con i parametri evocati; e, in
subordine, ne ha contestato la fondatezza.
Secondo la difesa dello Stato, l’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.
sanzionerebbe, infatti, un comportamento che «lede sia l’interesse all’efficienza
della giustizia civile, sia quello del privato a non essere coinvolto in una lite
temeraria». Per cui il fatto che il pagamento della somma in questione non sia
disposto a favore dell’Erario non costituirebbe «una irragionevole estensione a
favore della parte privata di una misura ristoratoria posta a presidio del solo
interesse pubblico, quanto piuttosto una delle possibili scelte del legislatore,
non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità, nell’individuare la
parte beneficiaria di una misura che sanziona un comportamento processuale
abusivo e che funge da deterrente al ripetersi di siffatte condotte».
Considerato in diritto
1.− Viene all’esame di questa Corte la questione, sollevata dal Tribunale
ordinario di Firenze, di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, del
codice di procedura civile «per contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della
Costituzione nella parte in cui dispone “In ogni caso, quando pronuncia sulle
spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare
la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma
equitativamente determinata”, anziché a favore dell’Erario».
2.– Il rimettente richiama in premessa l’orientamento della Corte di cassazione
(ordinanza 11 febbraio 2014, n. 3003), per cui la condanna, introdotta dalla
disposizione censurata «ha natura sanzionatoria e officiosa, sicché essa
presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente, ma non
corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa».
Ne desume che la correlativa funzione non sia, pertanto, quella risarcitoria –
del danno subito (e comprovato) dalla parte vittoriosa, (funzione questa)
assolta dalle disposizioni di cui ai primi due commi dello stesso art. 96 cod.
proc. civ.– bensì quella, ulteriore, di «presidiare il processo civile dal possibile
abuso processuale [e] di soddisfare l’interesse pubblico al buon andamento
della giurisdizione». Atteso che non potrebbe contestarsi che il «promuovere
azioni (o resistervi con difese) manifestamente emulative, vada a costituire
una massa di giudizi del tutto evitabili, addirittura indebiti se riguardati
nell’ottica del giusto processo e della sua ragionevole durata, che costituiscono
a loro volta un potente fattore di rallentamento delle altre controversie non
altrettanto banalmente caratterizzate».
Il rimettente trae da ciò, quindi, argomento per sostenere che «Se, mediante
lo strumento della sanzione officiosa dell’abuso processuale, tale e di tale
rango è l’interesse presidiato dall’art. 96, comma 3, […] non si vede perché la
medesima disposizione di legge preveda la condanna ad una somma
equitativamente determinata della parte soccombente a favore della
controparte vittoriosa anziché all’Erario, dal momento che la parte privata
risulta già munita di adeguata protezione per il risarcimento del danno che la
condotta abusiva del contraddittore abbia ad essa arrecato, cui corrisponde
uno specifico diritto di azione».
La disposizione impugnata evidenzierebbe, dunque, un profilo di «intrinseca
irragionevolezza ed arbitrarietà nella modulazione dell’istituto processuale», al
quale potrebbe, appunto, porsi rimedio solo con la richiesta pronuncia (che il
giudice a quo definisce “additiva”, ma che sarebbe in realtà) “sostitutiva”, che
ne dichiari l’illegittimità costituzionale nella parte in cui la condanna di che
trattasi è disposta «a favore della controparte» (vittoriosa) «anziché a favore
dell’Erario».
3.– Alla stregua di quanto precede (e per quanto anche in narrativa riferito) è
innegabile che l’ordinanza di rimessione abbia adeguatamente argomentato il
vulnus che sospetta arrecato, dal denunciato art. 96, terzo comma, cod. proc.
civ., agli artt. 3 e 111, in connessione all’art. 24 Cost., in ragione della
prospettata irragionevolezza della scelta legislativa che, seppur direttamente
pertinente al parametro dell’art. 3 Cost., inciderebbe indirettamente, a suo
avviso, anche sugli obiettivi del giusto processo di cui agli artt. 111 e 24 Cost.
L’eccezione di inammissibilità della questione, formulata dalla difesa dello Stato
adducendo un difetto di motivazione a tal riguardo, non è, perciò, suscettibile
di accoglimento.
4.– Nel merito la questione non è fondata.
4.1.– L’impugnato terzo comma è stato, come è noto, aggiunto all’art. 96 cod.
proc. civ. (sotto la rubrica «Responsabilità aggravata») dall’art. 45, comma 12,
della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).
Nel disegno di legge presentato nella precedente legislatura, la condanna della
parte soccombente era stata, appunto, correlata alle fattispecie di
responsabilità aggravata con l’espresso richiamo alle ipotesi previste dai primi
due commi dell’art. 96 cod. proc. civ. Nel progetto poi tradottosi nella legge n.
69 del 2009 è stato invece soppresso il collegamento con i primi due commi
della norma, prevedendosi, inoltre, che la condanna (raccordata alla
«pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91») possa essere emessa «in ogni
caso» e «anche d’ufficio».
L’intervento legislativo muove dalla constatazione che l’istituto della
responsabilità aggravata, pur rappresentando in astratto un serio deterrente
nei confronti delle liti temerarie e, quindi, uno strumento efficace di deflazione
del contenzioso, nella prassi applicativa risultava scarsamente utilizzato a
causa della oggettiva difficoltà della parte vittoriosa di provare il danno –
segnatamente in ordine al quantum – derivante dall’illecito processuale. Preso
atto di siffatta situazione, il legislatore, nell’intento di frenare l’eccesso di
litigiosità che affligge il nostro ordinamento ed evitare l’instaurazione di giudizi
meramente dilatori, ha quindi introdotto questo peculiare strumento
sanzionatorio, che consente al giudice di liquidare a carico della parte
soccombente, anche d’ufficio, una somma ulteriore rispetto alle spese del
giudizio.
Contestualmente all’introduzione della norma in discorso, è stato abrogato il
quarto comma dell’art. 385 del codice di procedura civile (in precedenza
aggiunto dall’art. 13 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 recante
«Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in
funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L.
14 maggio 2005, n. 80») che – al fine di «disincentivare il ricorso per
cassazione» (così Corte cost., ordinanza n. 435 del 2008) – stabiliva che «la
Corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a
favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata non
superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il
ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave». Ciò che induce a ritenere
che la legge di riforma abbia in tal modo voluto elevare (sia pur con talune
varianti) a principio generale il meccanismo processuale predisposto per il
procedimento di cassazione, facendolo rifluire in una disciplina valevole per
tutti i gradi di giudizio.
4.2.– La nuova disposizione, probabilmente anche a seguito delle ricordate
modifiche apportate nell’iter legislativo, non è risultata di agevole lettura.
Oltre che sui (non compiutamente) definiti suoi presupposti applicativi, la
dottrina e la giurisprudenza di merito si sono soprattutto divise sul punto se la
condanna della parte soccombente contemplata dal comma terzo dell’art. 96
cod. proc. civ. sia riconducibile allo schema della responsabilità aquiliana ex
art. 2043 del codice civile – e quindi abbia valenza, anch’essa, risarcitoria del
danno cagionato, alla controparte, dalla proposizione di una lite temeraria –
ovvero risponda ad una funzione (esclusivamente o prevalentemente)
sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e
di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo
così ad aggravare il volume (già di per sè notoriamente eccessivo) del
contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei
processi pendenti.
4.3.– Al riguardo, questa Corte concorda con la prospettazione del Tribunale
rimettente – che rimanda, a sua volta, all’esegesi della Corte regolatrice – sulla
natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più
propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione
scrutinata.
Depongono in questo senso, oltre ai richiamati lavori preparatori della novella,
significativi elementi lessicali.
La norma fa, infatti, riferimento alla condanna al «pagamento di una somma»,
segnando così una netta differenza terminologica rispetto al «risarcimento dei
danni», oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell’art. 96 cod. proc.
civ. Ancorché inserita all’interno del predetto art. 96, la condanna di cui
all’aggiunto suo terzo comma è testualmente (e sistematicamente), inoltre,
collegata al contenuto della «pronuncia sulle spese di cui all’articolo 91»; e la
sua adottabilità «anche d’ufficio» la sottrae all’impulso di parte e ne conferma,
ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non
è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati
innegabilmente pubblicistici.
Può, quindi, convenirsi con il giudice a quo anche là dove conclusivamente egli
considera che «la condanna di natura sanzionatoria e officiosa prevista dall’art.
96 comma 3 c.p.c. per l’offesa arrecata alla giurisdizione, che deve manifestare
e garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un
interesse di rango costituzionale intestato allo Stato», potrebbe
“ragionevolmente” essere disposta a favore di quest’ultimo.
4.4.– La ragionevolezza della soluzione auspicata dal rimettente non comporta,
però, la irragionevolezza della diversa soluzione adottata dal legislatore del
2009, e tantomeno ne evidenzia quel livello di manifesta irragionevolezza od
arbitrarietà che unicamente consente il sindacato di legittimità costituzionale in
ordine all’esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti
processuali (ex plurimis, ordinanze n. 138 del 2012, n. 141 del 2011).
La motivazione, che ha indotto i redattori della novella a porre «a favore della
controparte» l’introdotta previsione di condanna della parte soccombente al
«pagamento della somma» in questione, è, infatti, plausibilmente ricollegabile
– e non è mancato, in dottrina, chi l’ha così ricollegata – all’obiettivo di
assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente,
allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che
la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della
somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli
che graverebbero su di un soggetto pubblico.
L’istituto così modulato è suscettibile di rispondere, peraltro, anche ad una
concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa
(pregiudicata anch’essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata
in giudizio) nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare
l’an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del
risarcimento di cui ai primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ.
Analoga funzione sanzionatoria (e, concorrentemente, indennitaria) era, del
resto, attribuibile alla condanna del ricorrente (o resistente) in cassazione, con
colpa grave, prevista dall’abrogato art. 385 cod. proc. civ. (sullo schema del
quale risulta modellato il comma terzo dell’art. 96 cod. proc. civ.). E non è
privo di rilievo che anche quella norma riflettesse una opzione del legislatore
identicamente volta a porre a disposizione del giudice – id est della Corte di
cassazione – lo strumento di una condanna «anche d’ufficio» della parte
soccombente (che temerariamente avesse proposto il ricorso o vi avesse
resistito) al pagamento di una somma, equitativamente determinata, «in
favore» pur sempre «della controparte», e non già dell’Erario.
4.5.– La novella del 2009 – che ha, come detto, esteso, sia pur con marginali
varianti, a tutti i gradi di giudizio lo strumento deflattivo prima riferito alla sola
fase di legittimità – non presenta, dunque, connotati di irragionevolezza, ma –
come correttamente osservato dalla difesa dello Stato – riflette una delle
possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua
discrezionalità, nell’individuare la parte beneficiaria di una misura che sanziona
un comportamento processuale abusivo e che funga da deterrente al ripetersi
di una siffatta condotta.
Da qui, appunto, la non fondatezza della questione sollevata dal Tribunale a
quo.
Per questi motivi
la Corte Costituzionale
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo
comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24
e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

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